Salve a tutti! Questa è la prima fanfic originale che oso scrivere! Posto immediatamente il prologo e il primo capitolo, spero vi piaccia! La fic ha due protagonisti. La uso un po' come "prova" per descrivere tanto.
Prologo
Non aveva mai avuto una vita particolarmente fortunata: i suoi genitori erano poveri e, quando era molto piccolo, erano morti per malattia. Da quel giorno aveva vissuto con un suo amico d’infanzia, Vengeance, che però non aveva mai visto in faccia (chissà perché, si copriva sempre con bende o con un cappuccio). Quando si era ammalato, l’amico gli era sempre rimasto accanto, curandolo quando serviva. Ed ora quel mostro gli chiedeva di scambiare la vita del suo compagno che lo avrebbe guarito dalla malattia, o meglio, che avrebbe rallentato la sua morte: era impensabile! Un misto di rabbia, tristezza e disperazione lo prese. Ma poi successe qualcosa di inaspettato: l’amico acconsentì all’offerta. Urlò e gli corse incontro per cercare di fermarlo, ma l’altro gli sferrò un calcio allo stomaco, facendolo volare all’indietro e facendolo svenire. Vengeance si avvicinò a Reiko, il demone evocato dal visconte della città, e lasciò la propria vita nelle mani del mostro.
Shisi si risvegliò nella sua caverna, anche se non sapeva come ci fosse arrivato. Poi si ricordò di tutto quello che era successo nel castello e cominciò a piangere disperatamente. Dopo dieci minuti si riprese e notò che accanto a sé aveva il tanto agognato amuleto che lo avrebbe in parte guarito. Trattenne un singhiozzo e lo prese in mano: era una croce dal cui centro sorgevano molte linee che poi andavano a attorcigliarsi alle braccia dell’oggetto. Su queste linee c’erano delle rune appartenenti ad una strana linea. Al centro c’era un triangolo, minuscolo, con al centro un cerchio. Il tutto era completamente bianco, eccetto per il centro, che era nero come la pece. Chiuse la mano e strinse forte l’amuleto. Poi, scoppiò di nuovo a piangere.
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Si specchiò: capelli neri e lunghi e occhi marroni. Non molto alta e piuttosto magra. Era una ragazza decisamente normale, ma non le importava molto, non era una di quelle che pensavano solo al proprio aspetto fisico. Si preparò per uscire, indossando un costume bianco e nero con sopra dei pantaloncini e una maglietta anch’essa nera, preparò l’occorrente per il mare e, quando il fidanzato suonò, scese di corsa, felicissima. Appena lo vide gli corse incontro e lo abbracciò forte, dandogli un bacio. Lui era una persona splendida: era sempre gentile con tutti, non la stressava troppo, la lasciava in pace quando stava sola. Era alto, con i capelli corti e biondi e gli occhi azzurri. La carnagione chiara e il viso senza imperfezioni lo rendevano perfetto. Aveva solo qualche ruga impercettibile sulla fronte. Salirono in macchina e partirono. Arrivarono in un’ora. Presero il migliore posto che trovarono sulla spiaggia e corsero a fare un bagno. L’acqua era gelida, ma dopo un po’ diventava piacevole, considerando anche la temperatura che c’era fuori dall’acqua, ben 40°!
Quando si furono rinfrescati, uscirono dall’acqua, si asciugarono e si misero a sedere. Lei era pronta per la sua missione estiva: togliere quel coloraccio bianco cadaverico e diventare appena un po’ più scura, giusto il minimo indispensabile. Ma lui parlò:
-Meg, senti, è da un po’ che ci pensi su… che ne diresti di farmi conoscere i tuoi? Sai, ormai sono due anni che stiamo insieme e ancora non li ho mai visti, se non in foto…- quella domanda la spiazzò. Lei non era certa che ai suoi avrebbe fatto piacere incontrare il suo fidanzato, in fondo loro erano di origine nobile e come tali si comportavano, mentre lui era figlio di campagnoli
-Beh… non saprei…- “Cavolo Meg!” pensò fra sé “mai iniziare così! –Sono sicura che piaceresti ai miei, ma… sono in un altro paese e ora non possono incontrarti- lui la guardò sospettoso, poi assunse un’espressione fra l’arrabbiato e il dispiaciuto
-E’ sempre la stessa storia! A volte sono malati, a volte non ci sono! Non ti sto troppo attaccato perché non voglio essere uno di quei fidanzati che si appiccicano alle ragazze come cozze e non se ne staccano neanche per un momento, ma non capisco perché non dovrei incontrarli!- non voleva litigare, non in quel momento almeno. Stavano passando una bellissima giornata e rovinarla così era da idioti
-Ti prego, non mi va di litigare. Appena ne avrò l’occasione te li farò conoscere, OK?- disse sorridendogli, ma l’espressione del ragazzo non cambiò, anzi, s’indurì ancora di più
-Basta, mi sono stufato. Torniamocene a casa- lei lo guardò a bocca aperta mentre si alzava preparando di fretta le varie cose che si erano portati. Si alzò svogliatamente e salì in macchina.
Il viaggio di ritorno fu terribilmente silenzioso: niente musica e se lei cercava di parlare, lui troncava il discorso sul nascere. Quando arrivarono a casa lei scese, lo salutò, senza ricevere risposta, ed entrò. Non appena ebbe chiuso la porta, urlò con tutta la forza che aveva.
Dopo un paio d’ore decise di uscire. Fuori pioveva, ma non le importava: amava la pioggia quasi quanto il sole. Si vestì pesante, un maglione e dei jeans, e uscì. Fuori non faceva molto freddo e l’odore della pioggia la calmò un pochino. Camminò piano piano, cercando di godersi l’ambiente attorno a lei. Non si accorse però di una figura, incappucciata, che la seguiva dall’alto.
Capitolo 1
Entrò nella caverna. Era solita portare del cibo a Shihi e a Vengeance quando poteva, dato che i due non facevano mai nulla di utile per procurarselo. Si guardò intorno, ma non vide nessuno. Li chiamò, ma non ebbe nessuna risposta. Poi vide Shihi, rintanato in un angolino: respirava a fatica, perdeva sangue da una spalla e sembrava svenuto. Dell’altro, neanche l’ombra. Si avvicinò preoccupata all’amico, lo fece stendere a terra e gli preparò subito qualcosa da mangiare, curandogli prima la ferita. Quando rinvenne, aveva una faccia sconvolta
-Shihi sono io, Camilla- disse lei, col tono più calmo che aveva –Che ti è successo? E Vengeance?- chiese. Il ragazzo emise un gemito, tentò di tirarsi su e, quando si accorse di non poterci riuscire, scoppiò a piangere
-E’ tutta colpa mia… - singhiozzò –Non lo avrei mai dovuto coinvolgere… - singhiozzò di nuovo. Camilla cercò di calmarlo, gli mise un asciugamano bagnato sulla fronte, dato che le sembrava che Shihi avesse la febbre, e lo fece mangiare
-Che è successo?-
-Siamo andati dal visconte, ma c’era… c’era… - poi l’amico venne scosso da un fremito, cominciò a respirare a fatica, si tocco il petto e ebbe uno dei suoi attacchi: un dolore inimmaginabile lo prendeva al petto e, dopo qualche secondo, tossiva sangue. La sua era una malattia che, piano piano, ingrossava il cuore, aumentandone il battito e la quantità di sangue che pulsava, mandandone troppo nelle parti corporee che lo avrebbero rigettato. La ragazza si mise subito a curarlo, prima pulendo il sangue che il ragazzo aveva in viso e poi dandogli una di quelle medicine che il medico gli aveva prescritto che, però, sembravano non sortire alcun effetto
-Smettila di parlare- disse Camilla, in lacrime –Dobbiamo trovare l’amuleto…- il ragazzo indicò la mano sinistra, che stringeva qualcosa: l’amuleto –Ma… - poi Shihi svenne. Lei gli diede le ultime cure, ma poi dovette andar via.
Era notte fonda e faceva freddo. Le stelle erano ricoperte da nubi temporalesche: presto sarebbe cominciato a piovere. Aprì gli occhi, piano piano, cercando di mettere lentamente a fuoco. Si alzò da terra e prese lo zaino, mettendoci dentro gli oggetti necessari per il viaggio. Voleva andarsene, quel posto gli faceva male, il ricordo del tempo passato lì gli faceva male. Pensò agli amici che avrebbe lasciato, a Vengeance, alla sua infanzia, ma li mise da parte: aveva imparato a non pensare al passato. Prese una spada e un coltellino e uscì dalla caverna. Si voltò, fissò il luogo in cui aveva vissuto per gli ultimi diciotto anni della sua vita, poi se lo lasciò alle spalle, con grande dolore.
Aveva vissuto in quei luoghi per tanto tempo, ma non si era mai spinto troppo in là, per paura di perdersi. La foresta che circondava la città e la cua “casa” era un enorme labirinto naturale, dove ci si smarriva facilmente, a causa della somiglianza degli alberi e alla mancanza di punti di riferimento. Lui e Ven vi si erano addentrati molte volte, ma sempre lasciando qualche segno per ritrovare l’orientamento. Ora lui doveva superare quel luogo oscuro, senza aiuti e senza punti di riferimento, dato che non voleva tornare a casa. Fece un respiro profondo e poi entrò.
Verde. Non c’era altro che verde. Alberi ovunque, tutti uguali, altissimi, che gli incutevano anche un certo timore: aveva paura che, da un momento all’altro, un mostro sarebbe spuntato dai rami e lo avrebbe assalito. Si diceva che in quella foresta vivessero delle creature strane, ma lui non ne aveva mai incontrate. Continuò ad inoltrarsi nel bosco, cercando di fare il meno rumore possibile, guardandosi guardingo attorno, pregando che sarebbe uscito da lì sano e salvo. La notte arrivò lenta e Shihi fu costretto a fermarsi a causa della stanchezza. Si sistemò in una piccola radura, circondata dagli alberi, si procurò qualche rametto e, con un dispensatore di fuoco, accese un piccolissimo falò. I dispensatori erano dei tubicini che producevano scintille quando ci si soffiava dentro. Il contatto fra le scintille e i rametti, poi, creava il fuoco. Si scaldò le mani, si coprì con una coperta di lana e si stese a terra, cercando di dormire. Dopo una decina di minuti, cadde in un sonno profondo.
Era notte fonda. In lontananza si sentivano rumori di lampi e tuoni, il cielo era nuvoloso. Shihi dormiva tranquillo, senza rendersi conto di essere osservato. La creatura, nascosta fra i cespugli, gli girò intorno un paio di volte, per studiarlo e capire quale sarebbe stato il momento giusto per attaccare. Il fuoco era ormai spento e attorno a loro c’era il buio più totale. Si accovacciò bene a terra e poi scattò, nascondendosi in un arbusto che si trovava vicino al ragazzo. Piano piano, si avvicinò alla sua preda, poi gli saltò addosso.
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Aveva smesso di piovere, ma l’odore c’era ancora. L’umidità della pioggia e il calore che c’era stato durante il giorno si stavano piano piano unendo, creando un’afa terribile. Meg si fermò ad un bar, prese una bibita e uscì, continuando la sua camminata. Ignara di ciò che stava per succedere, imboccò una strada vuota, quando qualcuno le spuntò davanti, dall’ombra.
Era ormai tanto tempo che si parlava di lui. Aveva ucciso diverse persone negli ultimi tempi e i telegiornali non avevano perso tempo: ormai era un killer di fama mondiale. Attaccava sempre le persone che erano sole, non gli piaceva attaccare i gruppi, e le uccideva in una lenta agonia. Aveva adocchiato una ragazza che stava girando da un po’ di tempo: sembrava sovrappensiero, chissà per quale motivo. Saltò sul tetto del palazzo accanto al suo, continuando a seguira la sua nuova vittima. Entrò in un bar, ma uscì quasi subito. Lui la precedette, saltando giù dal palazzo e aspettandola. Quando girò l’angolo, la ragazza se lo trovò davanti.
L’uomo che era davanti a lei era strano: aveva un ghigno malefico stampato sulla bocca, gli occhi di colore diverso, uno rosso sangue e l’altro giallo, e i capelli neri, con sulle punte una sfumatura rossa appena accennata. Alla cintura aveva una spada, cosa che la preoccupò subito. Lui cominciò a camminare verso di lei, sguainando la spada. Lei non urlò, forse farlo avrebbe peggiorato solo le cose, e si limitò ad indietreggiare, facendo cadere la bibita che aveva in mano:
-Non urli? Di solito coloro che uccido lo fanno- disse l’assassino, con voce roca, ma Meg non rispose, era troppo spaventata. Poi le venne un’idea. Diede un calcio alla lattina, che volò vicino alla faccia dell’altro, mancandola. Approfittando del momento di distrazione, cominciò a correre a perdifiato verso casa sperando che, una volta entrata, l’uomo si sarebbe rassegnato. L’unico problema era che casa sua era a tre isolati da dove si trovava in quel momento e lei non era mai stata un asso nella corsa. Si girò per vedere dove fosse finito l’omicida, ma non lo vide più. Piano piano il suo respiro si fece meno affannoso, lei si calmò un pochino, avviandosi lentamente verso casa.
Mise le chiavi nella toppa e l’aprì. Entrò, sollevata. Accese la luce, ma, quando si girò, le prese un colpo: l’uomo stava lì, in piedi sul tavolo. Appena la vide fece un sorriso e si inchinò, poi si rialzò, la spada in mano. Alla luce Meg poté notare che, nell’occhio giallo, c’era uno strano motivo che ricordava una stella, ma con quattro punte
-Allora, come vuoi morire? Ho diverse scelte sul menù- disse, tirandole un foglio bianco –Però credo che oggi sceglierò io- disse, facendo per l’ennesima volta un ghigno malefico. Saltò dal tavolo e tirò un fendente dall’alto con la spada, che Meg schivò per caso. La forza con cui la lama toccò a terra e il rimbombo del colpo la spaventò a morte: che razza di forza aveva quell’uomo?! Si avvicinò al tavolo e lanciò una bottiglia di vetro che aveva lasciato lì prima di uscire, nella speranza di colpire l’assassino in testa e farlo svenire, per poi chiamare la polizia. La bottiglia lo colpì dritto in fronte, ma l’altro non fece una piega: dopo un momento di stordimento tornò vigile come prima.
-Mpf, con un colpo simile, dove credi di andare- Con una velocità sovrumana l’omicida si avvicinò a lei, tirandole un forte calcio nell’addome. Lei urlò, inciampando sul divano e cadendo di schiena. Aveva la vista sfocata e stava per svenire. L’ultima cosa che vide fu la figura dell’uomo avvicinarsi a lei.
Era una ragazza molto tenace, ma quando lui decideva che qualcuno dovesse morire, non smetteva di tormentarlo finché non portava a termine la sua missione. Si avvicinò, la vittima ormai svenuta. Alzò la spada e poi, velocissimamente, l’abbassò. Prima di riuscire a colpirla, però, un bagliore lo accecò
-Ma che diavolo…- disse. Quando riuscì a riaprire gli occhi, la ragazza era sparita.
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Shihi fu svegliato di colpo, facendo appena in tempo a vedere qualcosa che gli saltava addosso. Fece una capovolta di lato, schivando di pochi centimetri l’artiglio della creatura. Afferrò la spada, preparandosi a combattere. La vedeva a malapena, ma poteva sentire il suo respiro vicino a sé. Scattò in avanti tirando un fendente con la spada, sperando di colpire l’animale, che schivò di lato e, dopo aver fatto un tremendo ruggito, lo artigliò alla gamba. Shihi cacciò un urlo e cadde a terra, tenendosi la ferita, mentre coll’altra mano teneva la spada, pronto a difendersi nel caso la bestia riattaccasse. Poi qualcosa alle sue spalle si mossa e sentì una fitta tremenda alla schiena. Lasciò l’arma e si portò l’altra mano alla schiena, piangendo di dolore. Il sangue non la smetteva di uscire e la sua vista si stava piano piano annebbiando. Chiuse gli occhi, ormai rassegnato. Poi gli rivenne in mente Vengeance, di come si era sacrificato per lui. Non poteva morire, non ora. Si rialzò con le poche forze rimaste. Vide la belva saltargli addosso, pronto a mordergli la giugulare. Lui allungò in avanti la mano instintivamente. La mano si scontrò con il corpo dell’animale, poi una cosa strana successe: il medaglione, che nel frattempo si era messo al collo, brillò. Le linee presenti sulle braccia della croce si allungarono, attorcigliandosi attorno al corpo della creatura, che urlò di dolore. La bestia cominciò piano piano a smagrirsi, le ferite di Shihi cominciarono a curarsi, il sangue cominciò a smettere di uscire. In poco tempo, della creatura era rimasto solo lo scheletro. Il ragazzo osservò esterrefatto la scena, poi si accasciò per terra, addormentato.
Si risvegliò la mattina dopo, ancora intontito per quello che era successo la notte prima. Osservò la carcassa: che diavolo era successo? L’amuleto lo aveva aiutato, ma perché? Fissò l’oggetto: che gli era capitato fra le mani? Si rialzò da terra e ricominciò a camminare, cercando l’uscita della foresta. Camminava a fatica: nonostante la ferita fosse guarita, la gamba gli faceva ancora male, per non parlare della schiena. Zoppicò ancora per qualche metro poi inciampò in una radice. Si rialzò e poi si ritrovò circondato
-Che volete voi?- disse, rivolgendosi agli “uomini” intorno a lui
-Tu hai ucciso lo Shishigun e tu ne pagherai le conseguenze- disse uno fra la folla. Prima che potesse rispondere si ritrovò le mani legate dietro la schiena da dei fili magici. Poi, qualcosa lo colpì in testa e non vide più nulla.
Si svegliò con un forte mal di testa e qualcosa che gli stringeva forte i polsi e le caviglie. Aprì gli occhi, tentando di mettere a fuoco l’ambiente circostante. Era circondato da tante figure che stringevano lance e indossavano delle strane tuniche verdi – probabilmente per mimetizzarsi in mezzo alla foresta- che gli coprivano il corpo fino alle ginocchia e che lasciavano scoperto il pettorale destro. Si mosse leggermente e subito vide le persone scambiarsi qualche parola. Fu buttato giù dal lettino dove era stato fino a quel momento e cadde a terra, atterrando sulle costole. Si rialzò a fatica – le catene che aveva sui polsi e alle caviglie non lo aiutavano- e si guardò attorno: erano sempre nella stessa foresta, che però aveva cambiato aspetto: gli alberi erano molto più bassi, a parte qualche albero piuttoto lontano, che raggiungeva vette altissime, e le foglie erano di un rosso scarlatto tendente al viola chiaro. Non fece in tempo a notare altro, perché uno spintone lo fece cadere a terra, di nuovo. Si alzò imprecando e vide il popolo della foresta guardarlo male.
<<fra non molto arriveremo alla nostra città>> disse il più alto fra loro <<sarai bendato e imbavagliato>> quando ebbe finito di parlare, ripresero a camminare.
Arrivarono alle porta di un’enorme citta, costruita ai piedi degli alberi altissimi che Shihi aveva visto qualche ora prima. Come gli avevano anticipato, venne bendato e portato chissà dove. Mentre camminavano, pensò che non aveva avuto ancora uno dei suoi soliti attacchi. Si disse che l’amuleto, probabilmente, aveva cominciato a fare i suoi effetti, quindi smise di pensarci. Arrivarono dopo circa venti minuti di cammino. Gli tolsero la benda dagli occhi e la corda che gli avevano messo in bocca per imbavagliarlo. Si trovavano davanti ad un enorme edificio a pianta quadrata, alto circa la metà degli alberi che lo circondavano, completamente nero eccetto per un enorme leone, completamente bianco, scolpito sulla facciata. Si avvicinaromo al gigantesco portone, che emise un rombo. Shihi lo guardò in modo strano, fece per aprir la bocca per chiedere che luogo fosse, ma si zittì non appena vide l’occhiataccia che la persona più vicina a lui gli stava rivolgendo. Poi, con suo grande stupore, il cancellò parlo:
-Il vostro nome, prego- disse, con voce metallica
-Sono lo sciamano Hingur, venuto a portare l’assassino dello Shishigun- rispose il più alto della folla
-Bene. La cella d’ isolamento si trova al piano 3, sezione 2- quando finì di parlare, la porta si aprì, rivelando l’interno dell’edificio: i muri erano di un grigio molto chiaro, tendente al bianco. L’ingresso era una piccola stanzetta da cui partivano tante scale che, a volte, puntavano dritte verso le finestre. Le guardò in modo strano, chiedendosi a cosa servissero, ma non disse nulla e proseguì. Vide lo sciamano avviarsi verso due persone, che Shihi riconobbe come soldati, e parlarci. Quando lo indicò, l’ansia lo prese, facendogli aumentare il battito cardiaco. Dopo poco, Hingur si girò e, assieme al resto della folla che lo aveva accompagnato fino a quel momento, uscì dal palazzo. Restò fermo per qualche secondo, mentre guardava spaventato le due guardie avvicinarsi. Quando furono abbastanza vicine, lo presero per i polsi e lo trascinarono verso il terzo piano. Mentre salivano, Shihi si guardò intorno, cercando di scorgere le altre celle. Notò che, in ogni piano, c’era un'unica cella, ma almeno dieci guardie.
-Come mai ci sono così tante guardie per un solo prigioniero?- chiese pauroso alle guardie, che gli scoccarono un’occhiataccia furente
-Questa- iniziò la più bassa delle due -è l’area di sicurezza di questo carcere. Qui vengono rinchiusi tutti i peggiori criminali. Anche la tua cella sarà così- concluse con un ghigno. Mentre ascoltava quelle parole, il ragazzo pensava che non era colpa sua se, inavvertitamente e senza aver la minima idea di come avesse fatto, aveva ucciso una bestia sacra che aveva tentato di mangiarselo; in fondo, pensò, si era semplicemente difeso. Quando furono arrivati al suo piano lo sbatterono in cella. Shihi osservò la sua nuova “casa”: il letto era una lastra di pietra con sopra una specie di coperta marrone, con un fagotto che, probabilmente, doveva essere il cuscino. La toilette era in un angolino della stanza e non sembrava affatto pulita. Il lavandino era poco distante dal letto.
-Il pranzo è alle due, la cena alle sette. Non avrai il diritto di parlare con chiunque ti si avvicini. Spero di esser stato chiaro- disse una delle guardie -Buona permanenza- concluse con un ghigno. Shihi lo mandò a quel paese e si sdraiò sul letto, che era terribilmente duro
“ che ti aspettavi, una reggia?” si disse, guardando il soffitto sporco e pieno di muffa “Dovrai sopravvivere finché non ti lasceranno dare delle spiegazioni” si girò su un fianco e tentò di addormentarsi, ma il terribile odore di chiuse glielo impedì.
Smise di guardare il muro solo quando sentì un rumore di chiavi provenire dall’esterno. Era entrato un ragazzo con un vassoio in mano, dove erano poggiati un bicchiere d’acqua e un misero pezzo di pane. Aveva cappelli bruni a spazzola e occhi marroni. L’espressione era seria, anche se si notava un po’ di stanchezza, marcata, probabilmente, dalle occhiaie. Il corpo, per quel poco che si vedeva, sembrava piuttosto muscoloso, probabilmente Shihi aveva di fronte a sé un guerriero, anche se non capiva come mai un combattente fosse finito a dar da mangiare ai carcerati. Il nuovo arrivato posò il vassoio ai piedi del letto
-La cena è alle sette- disse rudemente
-Lo so- rispose l’altro, rigirandosi svogliatamente verso la parete
-Domani sarai portato in tribunale, che si trova all’ultimo piano di questo palazzo. Lì sarà decisa la tua condanna- continuò il guerriero che, subito dopo, uscì.
Shihi fu scosso da un’attacco di paura e ansia: un momento prima era libero per la foresta e, ora, era chiuso in prigione e stava per essere processato. Dove viveva lui, i processi si svolgevano solo se qualcuno di ricco commetteva un delitto, ma spesso si concludevano con l’assoluzione del colpevole. Se fosse stato ucciso, si disse, tutti i sacrifici per trovare l’amuleto sarebbero stati inutili e Vengeance sarebbe morto per nulla. Si addormentò, facendo cadere il vassoio per terra.
In molti mi hanno detto che all'inizio è un po' confusa, spero che non lo sia troppo °-°